martedì 16 novembre 2010

Scrollo la testa: serve per togliere dalle orecchie quel cattivo suono che percepisco tutti i giorni, e mi creo la mia stanzina personale da manicomio, con le pareti imbottite, dalle quali risuona depresso Chopin. Ascolto malinconicamente con il mento nella mano e le guance che arrivano a terra dalla noia di vivere che si intercala tra le mie cellule.
Attorno a me ci sono esseri umani che respirano, proprio come me; ma faccio fatica a capacitarmene. Non riesco a capire come possano fare proprio come me. Non è vero. Se compissero i miei stessi atti penserebbero anche loro alle stesse cose, anche loro purificherebbero le orecchie un attimo prima di ascoltare Chopin ed isolarsi dal resto del mondo. E invece non lo fanno. Quindi non respirano come me, respirano diversamente. Respirano solo perchè è un riflesso naturale del corpo. Forse.
Vivere nelle alte sfere del cielo non rende speciali, ma chi arriva all'iperuranio credo finalmente viva; vorrei vederlo, questo iperuranio. Secondo me è proprio come dicono tutti, solo che si vive più leggeri, senza il peso del corpo. Solo le nostre idee volteggiano libere nell'aria, senza doversi scontrare con la nostra umanità limitata e limitante, contro l'umanismo delle persone che le ostacola, contro la volontà altrui come enti esistenti.
L'esistenza: un termine aggraziato per dire che siamo in un determinato posto in un determinato momento. Ma noi possiamo dire dell'esistenza altrui? Come posso io definire l'esistenza altrui? Deve per forza essere utile l'altro ente per essere esistente? Nel momento in cui il nostro ego, i nostri pensieri, le nostre intimità vengono fermate, ecco, sì: proprio ciò che ostacola è esistente. Palpita nella sua immobilità. E poi d'un tratto: esplosione. Muta. E' esistenza? O è un passaggio da uno stato di esistenza ad un altro? E la morte? No, dopo la morte l'anima esce dalla bocca e lascia la tutina di pelle li, a farsi compiangere dai vicini, mentre ella raggiunge questo mondo fatato, e se vogliamo, un po' la luna dove Astolfo va a ritrovare il senno di Orlando. Nell'iperuranio troviamo la cosa più grande che abbiamo perso durante la vita: la vita stessa. Ogni giorno che passa è un giorno in meno all'iperuranio, e fuori di noi ci sentiamo morire sempre un po', ma ancora non sappiamo che cosa ci aspetta. E saltiamo da un'esistenza all'altra, sempre ricercando la nostra passione, sempre stuprando il nostro corpo con emozioni, sempre alla ricerca di nuovo, di novità. Nonostante si trovino novità retrograde, novità che appannano le esistenze e che in fondo vogliono che assumiamo esistenze già esistite. Personalmente desidero esistere (che scema, non posso desiderarlo se già esisto: è una cosa che io non posso volere o non volere) dialogando con le esistenze che non mutano mai. Forse non è cosa migliore, fossilizzarsi. Ma come un fossile che non si è mutato dalla lontana preistoria, in cui ha smesso di esistere come animale e ha assunto l'esistenza di fossile, è stato utile per approfondire molti campi, così un'esistenza che non muta approfondisce se stessa nell'istanza in cui si trova.
Eppure parlo molto bene, ma in realtà sono un composto di esistenze: vivo in una monade leibniziana, con qualche variante, come per esempio una graziosa porta rossa con il pomello dorato, due finestrelle con tanto di vasi sotto di esse e tanti bei fiorellini. Ogni giorno che passa non sto seduta al tavolo, ma vivo la mia monade: osservo e studio le pietanze che io cucino, osservo e studio i fiori e le piante che io coltivo, osservo e studio la mensola dei libri che io ho attaccato, osservo e studio i colori delle pareti che io ho scelto e applicato, eccetera eccetera eccetera. Muto le mie esistenze in base a ciò che sto osservando. Amo profondamente ciò che osservo. E poi, quando smetto di osservarlo, continuo ad amarlo, ma forse un po' meno, visto l'amore nuovo che ho nei confronti della cosa nuova che osservo. Poi subentrano i sensi di colpa verso l'amore mutevole. E così cambio esistenza ad ogni nuovo stato d'animo.
Tutto questo per dirmi cosa? Che non so se ogni essere umano s'è accorto di abitare in una monade. Che non so se ogni essere umano ha le porte e le finestre nella sua monade. Che non so se ogni essere umano se ne accorgerà mai in tempo per poterla arredare. Che non so se riuscirà ad arrivare all'iperuranio dopo aver maturato le sue intimità sedate nella sua monade.

martedì 9 novembre 2010

Presto

febbrilmente sfoglio il mio catalogo sul surrealismo, comprato nel mio giorno di solitudine tanto adorato ed adornato di comportamenti stereotipati al punto tale da sembrarmi partecipe di qualche strano rito a monaco di baviera. cerco delle parole per descrivere il mio stato d'animo impazzito, e tocco le immagini, nella speranza che mi piova sulla testa qualche cosa di concreto in mezzo a così tanto astratto; improvvisamente mi ricordo che Sartre mi aveva suggerito di non ricercare le parole, di non cercare vocaboli nascosti tra fascicoli inaccessibili, di non prenderli con i guanti bianchi. Ha ragione.
le parole vanno stuprate. se devono rappresentarci allora devono adeguarsi a noi. e noi non siamo buoni.
ancora sfoglio ma non mi viene in mente nulla che si discosti dal "inutilità" e "odio senza confini". forse devo smetterla di cercarmi umanista? sarò misogina? la cosa non mi preoccupa. vorrei e dovrei seriamente fare l'eremita.
lo sfogliare mi porta a due pagine contigue, dove vengo catturata da due figure: una nota statua di Dalì che mi ricorda quanto schifo più fare una cosa che ti aspetti stupenda, e l'altra su una statua di Jean che rappresenta una testa nera con al posto delle palpebre due zip e al collo un nastro grazioso di negativi. e questa, maledettamente, mi ricorda i negativi del mio ultimo rullino, completamente bianchi. E poi il tripudio per le mie frementi mani: Duchamp. lui sa distaccare i miei pensieri da quella sorta di sostanza amorfa e gelatinosa che è l'esistenza. l'esistenza delle cose che tocchi, che si muovono nelle tue mani. lui la abbandona. e mi porta via con lui. quando usciamo sbattiamo anche la porta; dio che fracasso...
niente, altre parole non me ne vengono in mente. penso solo al modo in cui mi lasci ogni volta, e suppongo, anzi, SONO CERTA che tu lo faccia apposta, certo, dall'alto del tuo trono di sterco, che supponi di essere divertente e galante allo stesso tempo. ma è proprio vero che più fai del male e più vieni visto come una sorta di idolo per gli idioti. e io sono infinitamente idiota e piccola. deduzione rapida: venero quel trono di merda. sinceramente sto ancora tentando di definire le grandezze del trono e di paragonarle a te: a occhio e croce la tua figura è più imponente di ciò su cui ti siedi.
io ripeto: devo andare in un eremo e starci. non prego nessuno, prego solo me stessa di non incontrare quella che per sbaglio e per questione di routine viene chiamata società.
se vivessi in un'opera di Mozart non sarebbe tutto più semplice? Se fossi Costanza? o se tu avessi un briciolo dello charme che aveva Mozart? domande cosiddette filosofiche: non hanno risposta. o meglio, preferisco non dare una risposta a queste domande.
tutto questo ricercare mi fa spuntare un incredibile cefalea nevralgica al centro della mia fronte corrucciata. soffermarsi su quadri di metamorfosi mi rende così prevedibile e riciclata: ma adoro questi passaggi di stato, dove per un attimo l'esistenza delle cose, le cose che si toccano, viene messa in un angolo con una pistola puntata alla fronte e viene obbligata a fare le peggio cose. Vedere posti in nomi, sentire profumi in suoni, palpare costruzioni in azioni...
è arrivare alla frase "Dora Maar's surrealist compositions frequently place enigmatic figures in desolated or disrupted architectural settings" e pensare ancora alle parole che frena il mio entusiasmo. ho bisogno di Parigi, ma a volte mi rendo conto che forse lei non ha così bisogno di me: la penso già intensamente anche quando non sono con lei. magari le basta ciò.